La cooperazione sociale si fa garante della legge sul “Dopo di noi”
Al Muse di Trento un convegno su “abitare inclusivo delle persone con disabilità”. L’appuntamento ha presentato modelli ed esperienze e ha dato il via al calendario di eventi culturali e informativi promosso da Consolida e dalle cooperative sociali del Trentino.
A sei mesi dal varo della legge provinciale sul cosiddetto “Dopo di noi”, Consolida e le cooperative sociali hanno organizzato un incontro per riflettere sulle esperienze maturate e condividere i prossimi passi per dare concreta attuazione ai principi espressi nelle norme.
Le esperienze rappresentate nel corso del seminario (ospitato al Muse) sostenute sia da risorse pubbliche come il fondo costituito con gli ex vitalizi, sia private come il fondo sociale etika, sono curate dalle cooperative sociali “Incontra”, “CSA”, “Eliodoro”, “Grazie alla Vita”, “Gsh”, “Il Ponte”, “Iter”, “La Rete” in diverse zone del territorio provinciale con il coinvolgimento di molti enti locali.
A rappresentare le diverse esperienze, oltre agli interventi accademici, anche “Voci dalla vita vera”: testimonianze di protagonisti di percorsi di autonomia (persone con disabilità e loro familiari) del Trentino ma anche esperienze come quella della Fondazione Down del Friuli-Venezia Giulia.
Le proposte della cooperazione sociale
“Tutto parte dall’imparare insieme – ha evidenziato Francesca Gennai, vicepresidente di Consolida - Apprendimenti da condividere per estendere, culturalmente ed economicamente, l’accessibilità ai diritti. La cooperazione sociale mette a disposizione le lezioni apprese e il know how (l’insieme delle conoscenze). Risorse pubbliche come il fondo costruito con gli ex vitalizi e private (ad esempio quelle di etika) stanno contribuendo alla realizzazione di progetti di vita autonoma per persone con disabilità. Questi progetti – è stato aggiunto - devono essere considerati occasioni di apprendimento per operatori, istituzioni, famiglie. Da queste esperienze la politica potrebbe trarre elementi per ripensare l’esistente e dare gambe alla legge del dopo di noi. Rimanere in una dimensione di sperimentazione continua, offre esperienze eccellenti da portare ai convegni nazionali e internazionali sul tema ma, di fatto, limita la possibilità concreta che, tutte le persone con disabilità, possano realizzare i loro diritti”.
Principi declinati in quattro buone pratiche indicate dalla cooperazione sociale.
La prima: non standardizzare.La modellizzazione delle esperienze non deve trasformarsi in standardizzazione, ma deve considerare la specificità di ogni persona, la mutabilità dei percorsi di vita, la globalità dei desideri e dei bisogni di ognuno. Il progetto di vita di ognuno dipende dalle sue risorse, limiti, desideri, dal contesto familiare e sociale in cui vive. La “ricostruzione” non può trasformarsi in quadro immutabile. Il progetto di vita delle persone con disabilità (ma, più in generale, di ognuno di noi) non è qualcosa che si scrive una volta, si progetta e si va avanti. È legato alla vita vissuta e deve poter essere cambiato in risposta alla traiettoria che assume. Per questo si parla di progettualità che evolvono all’interno di un approccio metodologico che sostiene le autonomie residue delle persone, i loro desideri, costruisce reti relazionali e sociali, accompagna la famiglia ad accogliere un nuovo paradigma culturale (il distacco, l’indipendenza del proprio figlio…).
Parlare del tema dell’abitare inclusivo porta a dover ampliare lo sguardo. La vita di una persona abbraccia altre dimensioni: socialità e amicizie, sessualità ed emozioni, percorso scolastico, lavoro. Tutti ambiti che vanno ricompresi in una lettura complessiva. “Il lavoro che ci attende – è stato spiegato - è di dialogo con altri mondi perché le traiettorie di vita delle persone con disabilità trovino coerenza di approccio. Nessuno ha la bacchetta magica: i limiti ci sono, la nostra non può e non vuole essere una narrativa epica, ma realistica, che poggia sulla valutazione del protagonismo, delle competenze e di molto altro. Delle persone e su questa costruisce il migliore dei percorsi di vita possibile”.
La seconda: lavorare in rete. Il progetto di vita delle persone con disabilità non può essere costruito a tavolino da professionisti senza il coinvolgimento della persona coinvolta. Ogni storia va scritta insieme: servizi sociali, operatore del terzo settore che segue la persona, i familiari della persona e la persona stessa che, a seconda del proprio livello di capacità di autodeterminazione, deve essere presente e rispettata nella sua dimensione di bisogno e desiderio. In questa biografia individuale e collettiva gli attori devono avere pari livello nel protagonismo: persona con disabilità, famiglia, servizio sociale, operatori/educatori.
La terza: costruire una cultura condivisa. Tradotto: sensibilizzazione e formazione che deve muovere su più livelli. Le famiglie devono essere accompagnate nel distacco e ad accogliere e desiderare una vita indipendente anche per i loro figli con disabilità. La comunità è chiamata a creare un approccio inclusivo. Lavorare in questa direzione comporta per gli operatori/educatori un cambiamento significativo nel loro modus operandi. Prende sempre più corpo la metodologia della ricerca e dell’osservazione, dell’ascolto dei bisogni e dello stare un passo indietro o accanto. Insomma, c’è la necessità di potenziare queste competenze nei percorsi universitari curriculari.
La quarta: ricercare la sostenibilità. “Rispetto alla programmazione e all’assegnazione territoriale per l’implementazione delle progettualità, è necessario che, insieme – è stato detto - ci si attrezzi per promuovere la raccolta di dati statistici che illustrino la condizione delle persone con disabilità e le progettualità in essere, anche con riferimento alle diverse situazioni territoriali. Una distribuzione lineare territorialmente, rispetto alle risorse economiche, rischia di non accontentare nessuno e di non tenere in considerazione i reali bisogni presenti. Non logiche quindi di linearità distributiva ma logiche che tengano conto delle necessità reali”.
La giornata era stata introdotta dalle parole di Piergiorgio Reggio, presidente della Fondazione Demarchi di Trento, sul significato dell’abitare per persone con disabilità. “In buona sostanza – ha detto nel suo intervento – esistono varie dimensioni per la vita indipendente. Pensiamo al lavoro, alle relazioni sociali, all’affettività, all’inserimento in un territorio. Ma anche l’abitare è un elemento fondamentale. In maniera simbolica significa autonomia, significa una vita che comincia a diventare propria. Nella realtà è una quotidianità da vivere da soli o con altri e dove si è deciso. Una vita che potrebbe muoversi tra alcune incertezze ma che si può fare come è stato dimostrato dalle esperienze concretizzate fino a oggi”.
Il convegno è stato realizzato al Muse non a caso: il museo, infatti, partecipa nell’ambito delle proprie attività all’inclusione delle persone con disabilità come testimoniato da Samuela Caliari, responsabile area programmi del Museo delle scienze ad esempio attraverso percorsi di tirocinio per affiancare i pilot nelle visite guidate come quelle previste nel programma della giornata “Scoprire il Muse”.
Ufficio Stampa Consolida