L’economia sociale e capitalismo. Nuovi paradigmi per le sfide del futuro. E quanto alla Cina…
Maurizio Gardini (presidente Confcooperative): il Pil italiano cresce più di altri Paesi europei, ma allo stesso tempo aumentano povertà e fratture sociali, minando così la coesione sociale. L’economia partecipativa, di risposta ai bisogni e di relazione con i territori contrapposta alla finanziarizzazione dell’economia che punta solo ai dividendi.
Aldo Bonomi: senza coesione i territori non reggono. Marcello Signorelli (Università Perugia): o l’Occidente saprà essere competitivo sul fronte economico, altrimenti il declino ci sarà anche sul fronte culturale e della qualità delle relazioni.
Più che discutere su un nuovo capitalismo, occorre interrogarsi su un nuovo modello di economia. Perché se cresce il Pil insieme alla povertà, alla polarizzazione della ricchezza (il 10% più ricco della popolazione detiene il 53,5% della ricchezza nazionale, il 50% più povero l’8,4%), a territori che rimangono indietro, e questo mina la coesione sociale che è vitale. Il rischio di una economia in mano ai grandi Fondi investimento che puntano solo ai dividendi è sempre più accentuato.
Così Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, nel panel “Un nuovo modello di capitalismo tra sostenibilità e diseguaglianze” in apertura del Festival dell’Economia a Trento.
«Si moltiplicano le diverse forme di povertà: nell’educazione, nel welfare, nell’abitazione. Le cooperative con il loro modello di economia sociale portano avanti un progetto imprenditoriale che si fa carico dei bisogni di cittadini e di comunità. È un progetto di costruzione che nasce dal basso e si identifica in valori di partecipazione. Dobbiamo riportare l’attenzione sui territori, e l’Europa ce ne dà l’occasione.
Abbiamo necessità di ricostruire paradigmi economici e sociali in grado di risollevare le aree interne, creare piattaforme digitali, costituire comunità energetiche, riqualificare le aree urbane. Un nuovo modello che esprima un ambientalismo non solo ideologico, ma che si concili con uno sviluppo economico e sociale equilibrato».
«L’Italia interpreta un modello originale di capitalismo – ha affermato Aldo Bonomi, fondatore e coordinatore del consorzio AASTER – che è diverso da quello anglosassone, renano o francese. Qui contano i territori, pochi grandi gruppi e una rete di medie imprese con ossatura cooperativa. È un capitalismo molecolare, diffuso.
Oggi si compete tra sistemi territoriali, tra piattaforme: digitali, manifatturiere, agricole, turistiche… Quello che conta è che senza coesione sociale un territorio non regge».
«Il capitalismo ha custodito alcuni capitali come industriosità ed efficienza, ma non è stato capace di custodire le virtù civili, che sono dentro il capitale umano, per troppi anni sacrificato – ha detto Luigino Bruni, economista della Lumsa e caposcuola dell’economia civile – occorre ricostituirlo se vogliamo rendere sostenibili le nostre imprese».
«Nel 1970 consumavamo quello che producevamo in un anno, adesso lo consumiamo in sei mesi, in Italia anche prima. Sta diventando sempre più importante produrre rispettando l’ambiente, il sociale e con una governance adeguata (in sigla ESG) – ha affermato Rita D’Ecclesia docente dell’Università La Sapienza di Roma. C’è ancora molto da fare, ma sta aumentando l’attenzione».
«Se guardiamo ai modelli di successo, indubbiamente quello cinese negli ultimi quarant’anni ha mostrato le migliori performance – ha affermato Marcello Signorelli dell’Università di Perugia – perché è cresciuto dal 2 al 20% del PIL globale.
Non è il modello a cui aspiriamo, ma la superiorità della civiltà occidentale ed europea deve concretizzarsi in una maggiore capacità di competere dal punto di vista economico, altrimenti sarà impossibile preservare modelli e relazioni virtuose.
La qualità della vita dipende dal modo di fare impresa, dai consumatori e anche dal modo di comportarsi degli Stati.
Anzi gli investimenti materiali e immateriali degli Stati sono fondamentali per favorire uno sviluppo. La Cina e altri paesi emergenti hanno puntato molto su ricerca e sviluppo. L’Unione europea e l’Italia devono fare di più per individuare i settori dove investire. O l’Occidente avrà la capacità di essere competitivo sul fronte economico, altrimenti il declino ci sarà anche sul fronte culturale e della qualità delle relazioni», è stata la sua conclusione.